
Il vicebrigadiere che uccise un ladro rischia due anni e mezzo di carcere

Potrebbe costare due anni e mezzo di reclusione il gesto del carabiniere Emanuele Marroccella, che il 20 settembre 2020 sparò e uccise Jamal Badawi, 56enne siriano, sorpreso all’interno di un’azienda informatica all’Eur. Il pubblico ministero ha escluso la legittima difesa, ritenendo eccessivo l’uso delle armi, e ha chiesto la condanna al termine della requisitoria in tribunale. Il carabiniere aveva reagito dopo che il collega Lorenzo Antonio Grasso era stato colpito al petto da un cacciavite impugnato dal ladro.
La scena si svolse in pochi secondi, alle prime luci dell’alba. Dopo la segnalazione di una presenza sospetta da parte del portiere dello stabile, tre pattuglie dei carabinieri avevano circondato la zona. I militari del radiomobile avevano individuato Badawi e lo avevano aspettato all’uscita. Una volta scoperto, il 56enne colpì Grasso e tentò la fuga. Fu a quel punto che Marroccella, da una distanza tra i 7 e i 13 metri, esplose due colpi, uno dei quali raggiunse Badawi al busto, causandone la morte.
«Quel momento è durato tre lunghissimi secondi», ha dichiarato l’imputato in aula, spiegando di aver mirato alle gambe e di essere in posizione stabile al momento dello sparo. «Il mio collega era ferito, diceva che non riusciva a respirare», ha aggiunto il carabiniere, assistito dagli avvocati Paolo Gallinelli e Lorenzo Rutolo.
Secondo il pubblico ministero, la reazione non è giustificabile: «Non c’era un pericolo evidente, la vittima era in fuga e la reazione è stata sproporzionata». Il video della scena, ripreso da una telecamera di sicurezza, è stato cruciale nell’accusa, che ha contestato la versione di una colluttazione. Gli avvocati della famiglia Badawi, Claudia Serafini e Michele Vincelli, parlano di omicidio volontario. «La vittima non rappresentava più una minaccia ed era ormai lontana dal punto dell’aggressione», hanno sostenuto.
Resta un mistero cosa cercasse Badawi in quei locali: non c’erano refurtive con sé, e il contenuto dell’azienda non era di particolare valore. Pare che stesse parlando al telefono con un complice mai identificato. Ex atleta e membro dei servizi segreti siriani, viveva da anni a Roma svolgendo piccoli lavori, in attesa di ricongiungersi alla famiglia in Svizzera. «Mio padre era un pilastro della nostra famiglia», ha ricordato uno dei figli durante il processo. A luglio, è attesa la sentenza definitiva.