
Latina, dopo 4 bombe in dieci giorni, 300 telecamere di sicurezza in arrivo

A Latina l’aria è tesa e le strade sono vuote. Dopo quattro esplosioni in dieci giorni, i quartieri popolari vivono sospesi tra paura e rabbia. Sotto i portici di viale Nervi, dove è deflagrato l’ultimo ordigno, una signora stringe il cappotto e sussurra: «Abbiamo paura a uscire di casa, bisognava intervenire prima». In cielo l’elicottero, a terra polizia, carabinieri e guardia di finanza presidiano i varchi mentre le unità cinofile setacciano via della Darsena, via Guido Rossa e lo stesso viale Nervi. Il messaggio dei gruppi criminali è chiaro: ostentare forza, imporre la propria supremazia sullo spaccio e sfidare le istituzioni.
Le aree colpite, densamente popolate, ieri erano quasi deserte: finestre socchiuse, pochi passanti, una comunità che tenta di tornare alla normalità tra l’odore acre della polvere da sparo. Alle case “Arlecchino” una 75enne, che preferisce restare anonima, scuote la testa: «Sappiamo che qui si spaccia da anni… ma sono ragazzi giovani. I controlli? Troppo pochi, hanno sottovalutato e ora è degenerata». Nel brusio, spuntano anche voci incontrollate su famiglie note alle forze dell’ordine, ma si tratta di versioni che non coincidono con la linea investigativa: per gli inquirenti il quadro è quello di una faida locale tra vecchi e nuovi gruppi criminali che si contendono le piazze di spaccio a colpi di ordigni artigianali — lattine riempite di polvere pirica e schegge metalliche — esplosi a ridosso di palazzi abitati. È già molto che non ci siano vittime.
Gli investigatori puntano su una dinamica di botta e risposta tra gruppi storici, indeboliti da pregresse inchieste, e baby criminali cresciuti all’ombra di violenze di strada (una rissa al Lido di Latina di qualche anno fa li rese noti quando erano minorenni). La prima bomba, spiegano, sarebbe stata messa dai “vecchi” per ribadire chi comanda; la replica dei “giovani” non si è fatta attendere. Nel frattempo, il territorio sconta un grave deficit di videosorveglianza, fattore che rende più complesso il lavoro degli inquirenti. L’imperativo che filtra dalle stanze delle indagini è uno solo: «Bisogna fermarli al più presto».
Di fronte all’escalation, il presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, annuncia l’installazione di 300 telecamere sul territorio e una cabina di regia con il Viminale: «Ho parlato con il ministro Piantedosi, sarà qui nei prossimi giorni. Apriamo la strada per garantire sicurezza alla città e stroncare i tentativi di infiltrazione criminale. È il momento di usare tutti i mezzi dello Stato». In Comune, dopo il confronto con il sindaco Matilde Celentano, la linea è quella di una stretta coordinata: più posti di blocco, più pattuglie interforze, più controlli mirati nelle zone calde.
Sul fronte giudiziario, arriva intanto la misura di sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno per Antongiorgio Ciarelli: tre anni nel Comune di Latina, provvedimento disposto già nel 2013 per pericolosità sociale, divenuto ora esecutivo dopo i 12 anni di carcere (2012-2024) e le minacce rivolte lo scorso anno — tramite un familiare — a Luigia Spinelli, oggi procuratore facente funzioni di Latina e firma di punta nelle inchieste antimafia sul territorio. Pochi giorni prima di quelle minacce, il 27 settembre, la stessa Spinelli aveva chiesto per Ciarelli altri 10 anni nel processo “Purosangue”.
La città, intanto, prova a resistere. Ma perché Latina torni ai suoi ritmi, serve che la pressione investigativa e le nuove tecnologie di controllo trasformino la percezione di sicurezza in deterrenza reale: soltanto così l’eco delle bombe potrà lasciare spazio al rumore di una normalità riconquistata.