
Trent’anni ai mandanti dell’omicidio di “Barbetta” alla Magliana

Si è concluso con pesanti condanne il processo per l’omicidio di Andrea Gioacchini, noto negli ambienti della criminalità romana come “Barbetta”. Ugo Di Giovanni ed Emiliano Sollazzo sono stati condannati a 30 anni di reclusione per aver pianificato l’agguato del 10 gennaio 2019, costato la vita a Gioacchini a pochi passi dall’asilo dove aveva appena accompagnato i figli. La moglie della vittima rimase lievemente ferita nell’attacco.
Fabrizio Olivani, l’esecutore materiale del delitto, ha ricevuto una condanna a 20 anni, beneficiando delle attenuanti. Il giudice ha riconosciuto l’aggravante del metodo mafioso per l’omicidio, un episodio di sangue che, secondo gli inquirenti, ha innescato la spirale di violenza culminata, sette mesi dopo, con l’uccisione di Fabrizio Piscitelli, alias “Diabolik”, al parco degli Acquedotti.
Andrea Gioacchini, descritto come un personaggio di rilievo nel traffico di droga legato alla batteria di Ponte Milvio, guidata all’epoca dal capo ultrà laziale, fu assassinato da chi, come si legge nel capo d’imputazione, intendeva «affermare la supremazia criminale nel quartiere romano della Magliana».
I tre imputati chiave sono Ugo Di Giovanni, soprannominato “Cash” e noto nel quartiere come «il nipote» di Michele Senese, Emiliano Sollazzo, nipote di Giovanni Piconi, figura storica della Banda della Magliana, e Fabrizio Olivani. Per l’accusa, e ora per il GUP di Roma, Di Giovanni e Sollazzo sono i mandanti, mentre Olivani è colui che materialmente ha compiuto l’omicidio, un delitto di stampo mafioso.
Determinanti per l’identificazione dei responsabili sono state le rivelazioni dei fratelli Capogna, collaboratori di giustizia le cui testimonianze hanno gettato luce su dinamiche criminali cruciali nella capitale. In particolare, la deposizione di Simone Capogna è stata fondamentale. «Si è lui, lo riconosco dagli occhi, anche se si è fatto crescere la barba e i capelli», aveva dichiarato in aula lo scorso luglio, inchiodando Olivani come l’autore materiale dell’omicidio dell'”amico” Gioacchini, da poco uscito dal carcere.
Capogna ha inoltre indicato Sollazzo e Di Giovanni come i mandanti. Quest’ultimo era considerato così vicino a Michele Senese da essere chiamato da molti Ugo Senese. Proprio con Di Giovanni, Gioacchini aveva dei pregressi conflitti.
Il movente dell’omicidio, secondo quanto emerso dalle indagini, risiederebbe nella volontà di potere di Ugo Di Giovanni. «Poteva essere per uno spillo, un maglione… ma era per il potere», ha raccontato Simone Capogna. La scintilla sarebbe scattata quando Alberto Viola, legato al clan Mazzarella-D’Amico e debitore nei confronti di Gioacchini, chiese aiuto a Di Giovanni per non pagare il suo debito. “Cash” intimò a “Barbetta” di lasciar stare Viola, scatenando in quest’ultimo un desiderio di vendetta. Gioacchini confidò al pentito, amico di Di Giovanni, di voler «fargli una rapina e sottrargli 500 mila euro e le armi». Questa intenzione giunse alle orecchie di Di Giovanni, che decise di anticipare le mosse di Gioacchini, orchestrando l’omicidio con la complicità di Sollazzo e affidando l’esecuzione a Olivani.
Il pubblico ministero Francesco Cascini aveva richiesto trent’anni di reclusione per tutti e tre gli imputati, optando per il rito abbreviato. La sentenza di ieri accoglie in gran parte le richieste dell’accusa, segnando un punto importante nella ricostruzione di questa pagina oscura della criminalità romana.