
Roma, indagini sui finti lavori ai boss per eludere i domiciliari

La Procura di Roma ha avviato un’ampia indagine su un sistema di finti impieghi utilizzato da esponenti e affiliati delle narcomafie capitoline per eludere le misure restrittive. L’inchiesta punta a verificare la rete di attività commerciali e aziende che, formalmente in regola con contratti e contributi, garantirebbero assunzioni a soggetti sottoposti a arresti domiciliari, consentendo loro di uscire di casa con l’autorizzazione del giudice. Un meccanismo che, secondo gli investigatori, è diventato un vero e proprio escamotage strutturato per continuare a gestire affari illeciti.
Secondo gli inquirenti, ristoranti, pizzerie, bar, pasticcerie e persino note catene commerciali, spesso intestati a prestanome, avrebbero assunto come lavapiatti, camerieri o pizzaioli diversi membri della manovalanza criminale e dirigenti delle organizzazioni di narcotraffico. “I contratti sono regolari, ma i dipendenti non si vedono mai sul posto di lavoro”, spiegano fonti investigative. Il trucco è semplice: con un’occupazione dichiarata e orari stabiliti, il detenuto ai domiciliari può lasciare la propria abitazione per recarsi sul luogo di lavoro, salvo poi approfittare degli spostamenti per incontrare complici e proseguire le attività illecite.
La legge impone che il percorso verso il lavoro sia il più breve possibile e senza contatti non autorizzati, ma per le forze dell’ordine il controllo capillare è impossibile. Con migliaia di verifiche quotidiane, non esiste la possibilità di scortare ogni soggetto autorizzato. Così, lungo il tragitto, gli indagati trovano modo di riallacciare rapporti utili alla gestione del traffico di droga. La Dia e la Guardia di Finanza sono già operative per monitorare la situazione, ma dalla Procura arriva una richiesta precisa: più attenzione da parte di tutte le autorità competenti, dalle divisioni amministrative della Questura ai nuclei specializzati dei Carabinieri, fino agli ispettorati del lavoro e alla polizia locale.
Il prefetto Lamberto Giannini, intervenuto in commissione parlamentare antimafia, ha sottolineato l’efficacia delle interdittive antimafia, definendole «uno strumento formidabile» per colpire i clan. In due anni ne ha emesse 67, spesso partendo da indicatori anomali, come intestatari troppo giovani o anziani per la gestione di attività commerciali. La stretta è in corso, ma resta il nodo dell’infiltrazione criminale nelle attività “pulite” e del loro uso per scopi diversi dal riciclaggio: garantire libertà di movimento ai vertici e agli uomini chiave delle organizzazioni, aggirando di fatto le misure cautelari.