
E’ morto Franco Angioni, il generale che guidò la missione italiana in Libano
Nel 2023, nel cuore del Libano, il sindaco di Tiro si ferma davanti ai soldati italiani della missione Unifil e, con un tono di sorpresa, chiede: «Folgore? Siete della Folgore?» La risposta arriva immediata, orgogliosa come sempre, dai parà italiani. In un attimo, le memorie del passato tornano in superficie. «Come sta il generale Angioni? Qui non ce lo siamo certo dimenticati, per noi è un eroe», chiedono i soldati, evocando il nome di Franco Angioni, il generale Libano, come veniva chiamato affettuosamente dai suoi uomini e colleghi. La missione Unifil, che ha visto gli italiani in Libano dal 1982, sta per terminare nel 2026, ma il ricordo di Angioni e della sua leadership rimarrà indelebile. Il generale Libano è scomparso ieri all’età di 92 anni e non vedrà quindi ammainare la bandiera italiana nella terra che ha tanto amato e da cui è stato tanto amato.
Angioni è stato una figura centrale nella storia dell’Esercito italiano, con una carriera che ha lasciato il segno in numerose missioni internazionali. Tuttavia, la sua esperienza in Libano è quella che lo ha reso un simbolo, soprattutto per la sua capacità di guidare con il cuore e con la mente. Anche perchè fu la prima missione all’estero dell’esercito italiano del dopoguerra. Quando giunse a Shama e Al Mansouri, la situazione era difficile: «Non c’erano spazi per i nostri soldati, non c’erano caserme adatte». Le autorità locali offrirono ospitalità alle truppe italiane nelle scuole, ma Angioni rifiutò. «Preferimmo montare le tende pur di non impedire ai bambini di andare a studiare», racconta. Questa decisione rispecchiava lo spirito con cui l’Italia si era presentata in Libano: non per combattere, ma per portare pace.
La sua visione del ruolo dell’Italia nelle missioni internazionali era chiara. Come raccontò in un’intervista a Enzo Biagi: «Non eravamo andati lì per combattere, ma per farci capire. L’Italia deve essere rispettata, non temuta». Una filosofia che si traduceva in atti concreti di coraggio. Angioni, ad esempio, una volta aprì il portellone dell’elicottero e si calò con una fune per osservare da vicino quei borghi in cui la battaglia infuriava ancora. «Il nostro mezzo in volo venne anche colpito da una milizia locale, ma ordinai di non reagire. Volevamo evitare l’escalation», ricordava.
Ma l’esperienza più dolorosa per Angioni fu quella che riguardava Mustafà, un bambino che correva incontro ai soldati ogni volta che arrivavano al campo. «Ogni volta che arrivavo al campo mi veniva incontro di corsa, gridando ‘Generale, generale’», raccontava. Mustafà era il simbolo della speranza per un futuro migliore. Tuttavia, quel sogno fu spezzato quando il bambino morì a causa di una mina. «Era il simbolo di tutte le vite innocenti per le quali valeva la pena rischiare», rifletteva Angioni, consapevole che il conflitto stava compromettendo il futuro di molte vite.
Oggi, i soldati italiani, che ancora operano in Libano, continuano a ricordare Angioni come un simbolo di coraggio, umanità e dedizione. Il suo nome rimarrà legato alla storia della missione Unifil, e il suo spirito continuerà a vivere nel ricordo di coloro che hanno avuto il privilegio di servirgli al fianco.