
Roma, condannato il “re dei videopoker”: 9 anni per estorsioni e gioco d’azzardo

È arrivata la condanna per Salvatore Nicitra, il “boss” che amava definirsi tale nelle intercettazioni e che per anni ha dominato il giro delle slot machine e dei videopoker illegali nel quadrante nord di Roma. La IX sezione penale del Tribunale di Roma lo ha condannato a nove anni di reclusione in primo grado al termine del processo “Jackpot”, scaturito da un’indagine della Direzione Distrettuale Antimafia. Cade però l’aggravante del metodo mafioso, con pene più lievi rispetto alle richieste del pm Stefano Luciani.
In totale, su 35 imputati, 17 sono stati condannati per un ammontare complessivo di 72 anni e 6 mesi di carcere. Tra le pene più pesanti, Antonio Dattolo (11 anni), Andrea Verdozzi (8 anni e 4 mesi) e Daniele Ferri (6 anni), ritenuti gli esecutori materiali delle minacce e degli attentati contro i commercianti che si rifiutavano di installare le macchinette imposte dal gruppo.
Secondo la ricostruzione della procura, Nicitra aveva costruito un sistema estorsivo capillare che imponeva le slot di una società di facciata, la Eurogames, formalmente intestata a Francesco Inguanta, ma di fatto riconducibile al boss. Gli apparecchi, non collegati all’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, permettevano di incassare decine di migliaia di euro senza versare nulla allo Stato.
Oltre ai videopoker tradizionali, il gruppo utilizzava anche i cosiddetti “Totem”, terminali che simulavano ricariche telefoniche o pagamenti online ma celavano piattaforme di scommesse illegali con bookmaker esteri. «Modalità di gioco camuffate da servizi promozionali», come si leggeva nell’ordinanza di custodia cautelare. A pagare più duramente, osservano gli inquirenti, sono stati i “manovali” delle intimidazioni, mentre gli organizzatori del business del gioco clandestino, tra cui lo stesso Nicitra, hanno ricevuto condanne inferiori alle attese.
Nato nel 1957, Nicitra è una figura storica della criminalità romana, legata alla Banda della Magliana e ai nomi di Enrico De Pedis, Maurizio Abbatino e Antonio Mancini. I collaboratori di giustizia lo descrivono come uomo di fiducia di De Pedis, capace di mantenere potere e influenza anche dopo il declino della storica organizzazione. Nelle intercettazioni, Nicitra ostentava il suo passato e la sua reputazione: «Io sono un boss, e metto le macchinette dove voglio, su tutta Roma», si vantava. E ancora: «Guadagnavo centomila euro a notte, avevo case da gioco più ricche dei casinò». Soprannominato “l’ingegnere”, sosteneva di non avere più bisogno di violenza o droga per imporsi: «Sono rispettato da tutti», diceva con orgoglio. Ma la realtà raccontata dalle carte giudiziarie è quella di un imprenditore del racket e del gioco d’azzardo, capace di piegare gli esercenti con minacce, incendi e pressioni economiche.
Il nome di Nicitra è da decenni legato alle cronache giudiziarie di Roma. Negli anni ’90, durante la guerra tra clan, sparirono nel nulla il figlio undicenne e il fratello, due casi mai risolti di “lupara bianca” che sconvolsero la Capitale. Lui, all’epoca, scelse il silenzio. Oggi, dopo la condanna nel processo “Jackpot”, l’ex “boss” tornerà a comparire davanti ai giudici il 16 ottobre, nell’aula bunker di Rebibbia, dove è imputato come presunto mandante di alcuni omicidi legati alla mala romana.
La parabola dell’“ingegnere” sembra dunque arrivata al suo epilogo giudiziario: da re delle sale clandestine di Roma a detenuto di lungo corso, con alle spalle una carriera criminale durata oltre quarant’anni.